PECHINO - Lo Stato italiano non funziona? Per aggirare le inefficienze burocratiche c'è una nuova ricetta vincente: delocalizzare in India anche i mestieri della pubblica amministrazione. La sperimenta con successo il Consolato d'Italia a Shanghai, alle prese con l'annoso problema dei visti.

Sommersa dalle lamentele degli industriali e dei tour operator italiani, tutti scontenti perché siamo il paese più lento nel concedere permessi di viaggio ai manager e ai turisti cinesi, la nostra rappresentanza di Shanghai ha affidato in outsourcing le pratiche a una società di Bombay. Risultato: i visti italiani ora sono "made in India", ma finalmente le montagne di domande arretrate cominciano ad essere smaltite.

Il dramma dei visti è stato denunciato in occasione di tutte le missioni ufficiali in Cina: quella di Ciampi nel 2004, poi Prodi e Montezemolo nel settembre scorso, D'Alema a novembre. Capi di Stato, premier e ministri degli Esteri hanno dovuto ascoltare le lamentele delle imprese italiane, che scontano  mesi di attesa per poter invitare i loro partner d'affari cinesi.

Un coro di proteste viene anche dalla nostra industria turistica. La Cina è diventata un mercato strategico, l'anno scorso il numero dei suoi cittadini in viaggio di vacanza all'estero ha superato quello dei giapponesi, entro un decennio i cinesi saranno in assoluto i più numerosi a visitare il resto del mondo. Purtroppo la Francia ha già catturato gran parte di questo business, e l'Italia per ora deve accontentarsi delle briciole.

Anche qui una parte del nostro ritardo è legato direttamente alla questione dei visti. L'anno scorso la rete consolare tedesca in Cina ha rilasciato 180.000 visti, quella francese 150.000, la nostra soltanto 64.000 (una cifra eguale a quella dell'Austria, paese molto più piccolo). Le spiegazioni sono varie. C'è la complessità dei controlli introdotti dalla legge Bossi-Fini, che per ostacolare l'immigrazione clandestina finisce col danneggiare anche i businessmen e il turismo. E c'è la carenza di organici dei nostri consolati, difficile da risolvere col rigore di bilancio e i tagli imposti dalla Finanziaria.

Quando un ostacolo non si può rimuovere, meglio aggirarlo. Sembra una massima di Sun Tzu, l'antico teorico di strategia militare cinese, in realtà è la soluzione di buon senso escogitata dal nostro consolato di Shanghai. La salvezza si chiama Vfs, una società informatica con sede a Bombay, in India. Nata nel 2001 questa azienda indiana, come si può leggere sul suo sito www.vfsintl.com, "ha effettuato importanti investimenti nello sviluppo di un software che consente la gestioni di vasti flussi di domande di visti; possiede programmi informatici brevettati per il controllo dei passaporti, la costruzione di un database di informazioni sui candidati ai visti, e la trasmissione in tempo reale di questi dati".

Di fronte a questa nuovo tipo di delocalizzazione, un dubbio che sorge spontaneo riguarda la sicurezza e la privacy. Con i rischi del terrorismo alle porte, è prudente appaltare i nostri visti a una società straniera? E chi garantisce che i dati confidenziali siano protetti? Ma la Vfs evidentemente offre garanzie notevoli. Prima dell'Italia (oltre al nostro consolato di Shanghai anche quello di New Delhi usa i suoi servizi), la società indiana ha già conquistato importanti contratti di outsourcing delle pratiche dei visti per paesi più sospettosi di noi. Il governo americano affida alla Vfs tutti i visti rilasciati dai suoi dodici consolati indiani, quello britannico addirittura subappalta alla Vfs il mestiere di 55 consolati di Sua Maestà, dalla Cina alla Russia, dalla Nigeria al Bangladesh. Francia, Canada, Australia e Irlanda sono altri paesi i cui visti sono ormai sempre più spesso "made in India".

Di fronte al dilagare di questa ricetta fra i paesi europei aderenti al Trattato di Schengen, perfino i sindacati della Farnesina hanno dato il loro via libera. Se lo fa il Quai d'Orsay, difficile opporsi. Il successo della Vfs è tale che oggi l'azienda indiana è filiale del gruppo Kuoni, il grande tour operator svizzero. Ma il lavoro è tutto indiano. È Bombay che conquista così un'altra opportunità di crescita economica, creata indirettamente dalle nostre inefficienze burocratiche. Basta andare a consultare le pagine dedicate alla ricerca di personale, sul sito della Vfs: è un lunga lista di proposte di assunzione, tutti posti di lavoro qualificati, per giovani che abbiano almeno un Mba, master in business administration.

 

(4 dicembre 2006)

pubblicato in la Repubblica.it Esteri alla pagina
http://www.repubblica.it/2006/12/sezioni/esteri
/visti-india/visti-india/visti-india.html

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